
Poche ore fa è arrivata la notizia della scomparsa di Giorgio Bocca, prolifico giornalista e scrittore italiano nato a Cuneo nel 1920. Mi dispiace aver scoperto un articolo di Bocca su Giovanni Pastrone troppo tardi (troppo tardi per poterlo includere nella bibliografia pubblicata nel volume Cabira & Cabiria, Il castoro – Museo Nazionale del Cinema, 2006). Secondo me è uno dei migliori mai pubblicati dalla stampa italiana ed internazionale a proposito del ragionier Pastrone: “Il De Mille di ponte Trombetta”.
Ecco a voi qualche estratto:
Non si era iscritto né al fascio né alla DC, non era massone, non era commendatore e, per giunta, non era neppure espansivo e traffichino. Ma che voleva il ragionier Giovanni Pastrone? Che il nostro cinema, in quarant’anni di targhe, medaglie, grolle, leoni, nastri e coppe si ricordasse di premiare anche lui? Solo perché gli doveva moltissimo?
Tempo fa, che era già ammalato, lo pregarono di incidere la sua voce su un disco, per il museo del cinematografo. Disse no. Potevano prendere le pellicole, le lastre, i disegni, i brevetti, l’epistolario con D’Annunzio e tutti gli altri cimeli, ma non la sua voce di vecchio ammalato. Che cosa, in questa voce, avrebbe potuto ricordare l’altra, forte e decisa nella cadenza dialettale, che una mattina del lontano 1912 aveva ordinato alla Almirante Manzini: «Oggi si lavora con il leopardo. Niente paura, entro anche io nella gabbia»?
(…)
Per farvi un’idea del personaggio Pastrone state a sentire cos’è il nostro cinematografo nel 1907. Per la gente colta e per bene è uno spettacolo da fiera, una speculazione balorda, una avventura plebea, da osservare con disprezzo. Si dubita ancora della fotografia («Ieri ai cortesi ospiti venne offerta una fotografia eseguita dal cavalier Ippolito Leonardi che ottenne una ammirevole somiglianza»), figuriamoci di quelle immagini grigie ed epilettiche prodotte dai cinematografari.
E poi è gente senza morale. Scritturano «delinquenti come il Buffa, appena uscito dal carcere», si fan seguire da un codazzo «di persone di ogni risma ed età che impiegano come figuranti», sarebbe ora che la polizia mettesse fine alle orge che avvengono al Cavallo Grigio, loro luogo di ritrovo e l’ultima è che pubblicheranno un giornale «diretto dal ben noto Caronte del Fischietto, su cui leggeremo le birbonate di attualità».
Il ragionier Giovanni Pastrone, impiegato di banca ad Asti, si trova un posto in questo equivoco mondo, diventa contabile della Carlo Rossi e C. produttrice «in proprio di pellicole impressionate».
C’è un modo che è tipico dei provinciali piemontesi di accettare qualsiasi ambiente, senza timore né scandalo, restando, nella sostanza, quelli di prima. Caduto nella bolgia del primo cinema torinese il ragionier Pastrone ci lavora come se fosse ancora all’istituto di San Paolo. Le pellicce della Makowska, la prodigalità del Collo, gli occhi della Jacobini, la girandola dei milioni, delle truffe, degli amori non incantano in giovanotto che preferisce l’ordine e che, sbrigata in un’ora la contabilità, si interessa di macchine, di obiettivi, di produzione.
Se occorre una scenografia Pastrone la disegna, sa come far muovere le comparse, sa farsi rispettare anche dai divi, è il solo che sappia mimare una scena per fargli capire ciò che desidera.
(…)
A Torino Pastrone è nel lavoro fino agli occhi. Per ogni scena di masse (di Cabiria n.d.c.) disegna di suo pugno una piantina con i tempi e gli spostamenti successivi. Poi sperimenta le prime carrellate. Sono troppo veloci, il pubblico che assiste alle proiezioni di prova nella saletta privata dell’Itala esce con la nausea, bisogna modificare il movimento e gli obiettivi.
Per far scaturire le fiamme della bocca del Moloch usa degli acidi appena giunti dalla Germania. Una fiammata gli guizza sulla fronte, porterà per tutta la vita la cicatrice.
(L’Europeo, 12 luglio 1959)