Dedicato a quelli che s’interessano alle vicende intorno al film Inferno (Milano Film 1911), e a tutti gli affezionati lettori di questo blog, che ancora non hanno visto l’Inferno, di Dante…
IL CINEMATOGRAFO
Deriva dal greco e significa: segnare i movimenti. Tutte le parole celebri derivano dal greco: è sempre la Grecia che battezza le invenzioni, lei che crea le parole lasciando agli altri i fatti.
Il lettore che dubitasse dell’etimologia di questo vocabolo si provi di scombinarlo, avrà tante altre parole; tutte greche autentiche e genuine come il latte, il vino del secolo XX. Ecco: Cinematografo, menacitògrafo, citomenàgrafo, grafocitònema, fotogracìnema, tocimenàgrafo, menagracìtofo, nametocìgrafo…
Quando il cinematografo non aveva ancora aperto gli occhi… al buio, il melodramma, la commedia, la tragedia e perfino le marionette e i burattini, erano il passatempo di tutti. E pareva che ciò dovesse continuar fino alla consumazione dei secoli.
Ma ecco che un giorno una pellicola, vergine come Eva prima del peccato, entrò nella camera oscura di un fotografo, si mise a girare un valzer e poi scappò fuori a ripetere la sua danza sopra uno schermo. E nacque l’arte muta.
Da quel giorno trionfano gli uomini, le donne che non parlano; quelli insomma che gestiscono i quali hanno soppiantato tutti gli oratori: avvocati e conferenzieri, deputati e sermonisti; tutta gente che, oggi, non guadagna la centesima parte di quella che gestisce.
Il gesto dunque — parola delle mani — è diventato una gesta la quale abbisogna di gestazioni per imparare a gestire, ma quando gestisce provoca una tal gestione di banconote che il gesticolante incassa dicendo : — Proprio è vero il proverbio che il silenzio è d’oro!
Oggi infatti diventano milionari i geni del gesto. Non soltanto i divi e le stelle del cinema, ma tutti quelli che gestiscono: il boxeur e la ballerina, il ciclista e il calciatore, il maratoneta e il fantino. Tutta gente che è muta come un pesce, ma il pesce ha una ragione d’esser muto perché non si può parlar con l’acqua in bocca, mentre l’uomo, di proposito, non parla perché guadagna di più col gesto che con la parola.
— Ma, scusi, interrompe il lettore, Tamagno, Caruso non diventarono forse milionari con la voce?
— Già. A questo io non avevo pensato; ma sappia che di quei cantanti non ce ne sono tanti e poi loro cantavano senza parlare il che è tutt’altra cosa, come vede, dunque, lei ha preso una cantonata e non mi interrompa più. Le dirò ancora che siccome l’eccezione conferma la regola, proprio ci voleva questa eccezione per confermare quello che le dico io. D’altronde, anche prima dell’arte muta, la parola, fosse anche stata quella del Papa o del Re, valeva soltanto quando era scritta e cioè ratificata con un gesto.
E sapete perché il film si chiama pellicola? Perché agisce sulla nostra pelle. Infatti ci fa venire la pelle d’oca con un dramma, ci fa ridere a crepapelle con la farsa e ci porta in pellegrinaggio attraverso il mondo con visioni attraenti e pellegrine. Infine se la pellicola non piace e fa fiasco è l’impresario che ci mette la pelle.
Son questi i fasti e i nefasti della pellicola, la quale, in ultima analisi, è una lingua capace di raccontare qualsiasi cosa senza mai aprir bocca. E il buio della sala? E’ uno degli elementi accessori al cinema. Gli occhi vedono, al buio, sullo schermo, mentre le mani, al buio, lavorano per proprio conto e possono alleggerir una tasca del portafoglio senza che la vittima se ne accorga o accarezzare una vicina, che finge di non accorgersi.
E lo schermo? Non è più come un tempo l’arma con cui si schermisce, ma una candida tela, anzi un lenzuolo sul quale si proietta il film. Proprio un lenzuolo, e c’è la sua ragione perché il lenzuolo appartiene al letto e, voi lo sapete, il letto è quel mobile che riceve tutte le confidenze della vita vissuta. Dall’amore carnale che ti regala un figliolo, all’ultimo respiro per cui il lenzuolo diventa funebre.
E il film si proietta sopra uno schermo bianco perché il bianco, sintesi di tutti i colori, può vederne di tutti i colori senza scandalizzarsi, come appunto avviene al cinematografo sullo schermo e nella sala.
— Dunque, interrompe ancora il lettore, lei odia il cinema e l’arte muta? Ma scusi, è forse un oratore lei? Avvocato senza clienti, Cicerone a spasso, predicatore senza pergamo, deputato senza scanno, demagogo senza tribuna, comico senza platea, o Pipelet senza inquilini…
— Basta, basta; non sono oratore ed adoro l’arte muta e tutti i suoi fattori. La macchina da presa, lo schermo che riflette, la pellicola che proietta, il buio dove avviene la proiezione, perchè sono le parafrasi dei gesti più belli della vita umana, quelli che il Casanova chiamava: Vicende amorose.
A questa stregua una cinematografata con Francesca Bertini, Mary Pickford, Diana Karenne o Pola Negri, chi non la farebbe?
E, anche questo, sarebbe un gesto senza parole.
Adolfo Padovan
Adolfo Padovan, nato a Luino (Varese), 11 novembre 1869, deceduto a Milano, 13 luglio 1930. Nel retro-copertina di uno dei suoi libri si legge questa descrizione: “Scrittore acutissimo e robusto. Abbandonò gli studi astronomici, che aveva iniziati da giovane, per dedicarsi alla letteratura e filosofia. Collaboratore, alla casa editoriale Hoepli, di giornali e riviste, fra cui la Domenica del Corriere. Durante la guerra fu direttore del Comitato Milanese di Propaganda della Croce Rossa e ricevete due medaglie di benemerenza”. Sceneggiatore, regista, attore del cinema muto italiano.
Sempre meglio, altro che in penombra. Grazie!
Grazie, ma non ti illudere, è sempre cinema muto.
Com’è la nuova versione dell’Inferno della CB?
Non è arrivata da queste parti, immagino bene. Ha visto qualcuno il nuovo DVD della Cineteca di Bologna?