Filoteo Alberini – Parte Prima

Filoteo Alberini alla macchina da presa
Filoteo Alberini alla macchina da presa

L’11 aprile 1937 si spegneva in una clinica romana, in seguito ad una grave operazione, Filoteo Alberini. Uno dei tanti misteri intorno alla figura di questo pioniere del cinema italiano, come già nel 1963 aveva messo in risalto Roberto Chiti, è la mancanza di notizie sulla stampa: “i quotidiani nella quasi totalità ne ignorarono la morte”. E le riviste di cinema praticamente lo stesso. Nella rivista Bianco e Nero, diretta da Luigi Freddi, Luigi Chiarini vice-direttore responsabile, nemmeno una riga. Strano vero? Ancora più strano se teniamo conto che proprio intorno alla data di morte di Alberini si scrive molto sul cinema muto nelle pagine di Bianco e Nero (Histoire d’un Pierrot del 1914, Ma l’amor mio non muore del 1913, Thais del 1916, ecc..), si parla addirittura di stereoscopia, una delle specialità di Alberini. Curiosamente, nella rassegna stampa, riprendendo un articolo dal quotidiano Il Messaggero di Roma, ci si lamenta che il Museum of Modern Art di New York non conservi i film italiani, per esempio Cabiria. Dal canto suo, la rivista pseudo scientifica Cinema, diretta da Luciano De Feo, molto interessata alla tecnica cinematografica, pubblica qualche riga in un articolo firmato A. R. Cades a proposito della Cines:

« Dove sarà la Presa di Roma? La domanda è un po’ retorica; ne sa qualcosa il macero, che l’avrà veduta finire in qualche modesto e utilitario ricupero di cellulosa e d’argento. Fu il primo film della Cines, che però Cines non si chiamava ancora, bensì Stabilimento Alberini e Santoni, dal nome dei fondatori che, nel 1904, l’avevano fatta sorgere in Via Veio (S. Giovanni in Laterano). Uno dei due, Filoteo Alberini, era proprio quello che nel 1894 aveva costruito un primo apparecchio per la ripresa e la proiezione delle immagini in movimento, perfezionato e poi brevettato nel 1895, pochi mesi dopo quello del Lumière. Un pioniere del cinema, dunque, nel più completo senso della parola. Egli è scomparso in questi giorni. Fino a qualche mese fa, quello stesso sole che indora ed arrossa come frastagliati fastigi dolomitici le altissime statue di S. Giovanni in Laterano, faceva ancora brillare i vetri del primo, minuscolo studio della Alberini e Santoni, da molti anni ormai trasformato ad ospitare macchine e camere oscure ed essiccatoi dello Stabilimento di stampa, appunto, della Cines. »

Molte altre pagine — dei fascicoli pubblicati in corrispondenza della morte di Alberini — celebrano la nascita di Cinecittà, mentre Lucio D’Ambra sgrana i suoi ricordi del muto, ed ogni occasione sembra buona per mettere in risalto il contributo italiano al cinema mondiale, si veda, per esempio l’articolo sul “sangue italiano” firmato Gianni Puccini. Certo che quelli dei quali si parla e si richiama all’appello come esempio d’italianità, si chiamano Rodolfo Valentino o Frank Capra, diventati tanto famosi all’estero, che non è il caso di Alberini.

Meno male che a mettere le cose a posto ci pensa, qualche mese dopo, Jacopo Comin dalle pagine di Cine Teatro Magazzino:

« Sotto ogni grande impresa, sotto ogni grande successo industriale, si può mettere una firma che spiega il successo stesso; alle origini della nostra cinematografia, prima ancora che intervengano in essa uomini di altra tempra e di altra mentalità, commercialista e mediocrista, ci sono tre nomi che spiegano moltissime cose, che ci permettono di comprendere molte oscure vie di un luminoso successo, che chiariscono molti aspetti della nostra produzione di un tempo.(…) Questi tre uomini erano un disegnatore dell’Istituto Geografico Militare, Filoteo Alberini; un ragioniere di una grande ditta torinese, Arturo Ambrosio; un impiegato della Cassa di Pensioni piemontese, Roberto Omegna.” Segue una lunga dissertazione sulla condizione anti-borghese di “uomini capaci di lasciare un mestiere che dà loro un comodo reddito, una posizione tranquilla, una carriera sicura, per l’improvvisa idea che altrove ci sia di meglio e di più interessante da fare, per un tentativo che può anche risolversi in un grande fiasco, come in un grande successo. La gente sempre disposta, quando ne valga la pena, a fare il salto nel buio. »

Più che un salto nel buio, la scelta di Alberini sembra dettata da ben altro, come aveva scritto lui stesso nel famoso e più volte ripreso articolo del quotidiano La Tribuna del 1° febbraio 1923:

« Fin dalla mia fanciullezza sono stato un tipo alquanto bizzarro, e vi dirò subito che, mentre ero poco inclinato allo studio, avevo invece uno sfrenato desiderio di conoscere ed imparare tutte le arti e tutti i mestieri, desiderio questo da me raggiunto nel volgere degli anni. Non credo sia sfacciataggine la mia se vi dico che oggi io sarei disposto a darvene prova col fare per esempio un lavoro da falegname, una lavoro da fabbro, un lavoro da stagnino, saprei tagliare e cucire un vestito, fare un paio di scarpe, dipingere un quadro ad olio o a tempera, fare un ritratto a carboncino, fare un lavoro d’arte muraria e… potrei ancora seguitare a citare altre di queste stramberie. Cosa volete, la mia natura era così, ma riflettendo bene pensai che a seguitare di quel passo nulla di buono e di concreto nella vita avrei concluso, e mi fermai. Contribuì a questo una nuova arte che per puro caso mi si presentò: la fotografia! »

Come si vede da queste parole, le ragioni del “luminoso successo” del cinema italiano sono molto più semplici, e non credo che Alberini avrebbe definito la sua scelta “un salto nel buio”, tranne che per il fatto che il suo destino è il cinematografo e le sale dove si proiettano i film. Scusate la battuta, non lo farò più.

Come molti sanno, Filoteo Alberini nasce a Orte (Viterbo) il 14 marzo 1867, quinto figlio di Raffaele e Candida Vecchiarelli. Il municipio di Orte ha collocato una lapide commemorativa nella casa dov’è nato, a pochi passi del centro del paese. Da i suoi ricordi, ritornando al citatissimo articolo del 1923 sul quotidiano La Tribuna, sappiamo che l’interesse per la fotografia nacque dall’incontro con un fotografo ambulante capitato nel paese per caso: “Rammento allorché per la prima volta vidi riprodurre nel vetro smerigliato della macchina fotografica le immagini capovolte e a colori, non vi saprei descrivere ciò che io provassi in quel momento!”. Lo possiamo capire benissimo anche adesso, che è trascorso più di un secolo, almeno credo. Il racconto prosegue con l’acquisto della prima macchina fotografica “Era una di quelle macchine antiche a cassetta, per fotografie al collodio umido, e che presentemente conservo.” Ci crediamo, chissà che fine avrà fatto, come il resto delle sue cose…

A proposito di questo, Roberto Chiti, nell’articolo pubblicato su Bianco e Nero nel 1963 (e aggiungerei quasi inedito, viste le scarse citazioni nei testi relativi ad Alberini), propone che in più di quarant’anni “di instancabile e perseverante lavoro, aveva costruito (sempre con mezzi di fortuna), e brevettato apparecchi che in moltissimi casi hanno trovato la sua applicazione pratica in Italia ed all’estero, fruttando al loro ideatore più soddisfazioni morali che economiche. In altre parole, con il suo temperamento di scienziato, mentre era capace di fabbricare delle macchine, non aveva l’abilità necessaria per costruire su di esse un patrimonio”, riprendendo in parte le affermazioni di Jacopo Comin.

Una delle prime invenzioni di Alberini, nel 1893, è la messa a punto di un procedimento fotolitografico per la stampa diretta su lastra di zinco, che eliminava la negativa fotografica (pensate ad un scatto fotografico simile al sistema Polaroid), realizzando così una economia del 90%, ed un rilevante risparmio di tempo. A quell’epoca, Alberini si trovava a fare il servizio di leva all’Istituto Geografico Militare di Firenze. Il procedimento venne subito adottato dallo stesso istituto e dalla Rete Ferroviaria Adriatica e da altri Enti governativi.

Per certi versi, diciamo che Alberini si trovava nella città giusta: Firenze. Proprio a Firenze, nel 1889, si era costituita la Società Fotografica Italiana, un circolo di fotografi professionisti ed amatoriali, del quale, negli anni, entrarono a formar parte nomi come Primoli o Nunes Vais, per citarne soltanto due. Questi circoli fotografici, Firenze non era la sola città in Italia ad averne fondato uno, fomentarono non soltanto la popolarità della fotografia, ma anche e sopratutto l’intercambio di scoperte e la conoscenza delle ultime tecniche, visto che pubblicavano una serie di bollettini a carattere internazionale. Si veda, per esempio, la rivista La Fotografia Artistica, edita a Torino, che pubblicava i testi in francese e italiano. Altre attività comuni a molte di queste società erano i convegni, le esposizioni ed i concorsi. Nell’Esposizione Nazionale ed Internazionale del 1899 (16 maggio, Palazzo delle Belle Arti), gli venne assegnato un premio per il suo metodo della stampa diretta su lastra di zinco, e fu invitato, proprio da Primoli, a presentare le sue investigazioni in una conferenza.

Torniamo qualche anno indietro, fino al 1895, per parlare del famoso Kinetografo Alberini.

Nel 1895, Alberini costruisce un primo apparecchio per la ripresa, la stampa e la proiezione di immagini che dovevano raggiungere l’effetto del movimento, ottenuto “mediante una serie di rapide fotografie che consentivano di fissare appunto l’analisi del movimento”. Dopo una serie di esperimenti, nasce il Kinetografo, brevettato il 11 novembre 1895, a pochi mesi di distanza del brevetto Lumière (13 febbraio 1895). Ma la cosa non finisce lì, e nel 1897, Alberini mette a punto e brevetta il primo apparecchio concepito al mondo per riprese a formato ridotto, con caricamento in piena luce. Sempre in questo campo, brevetta la prima macchina cinematografica per ripresa su pellicola di maggiore grandezza, con fotogrammi multipli affiancati orizzontalmente in linee verticali. Il brevetto fu ripreso da un altro italiano, Schieroni, nel 1925, ed è stato poi applicato, negli Stati Uniti, alle pellicole in 16 mm nel procedimento chiamato Oneto Four o Fear Process. Ne riparleremo. Nel 1899 brevetta, anche in Francia, il Cinesigrafo a serie, apparecchio per ottenere con successive fotografie la rappresentazione del movimento (costruito in collaborazione con Anchise Cappelletti e Lionello Ganucci-Cancellieri), presentato nel congresso della Società Fotografica Italiana di Firenze.

Dopo l’Istituto Geografico Militare, aveva trovato lavoro all’Officina fototecnica del Catasto sempre a Firenze. A questo punto, Alberini decide d’intraprendere l’attività di esercente: “Nel corso dei miei studi sugli apparecchi cinematografici non mancai di osservare che se in un primo momento il Cinematografo Lumière aveva affascinato l’universo, nel volgere di poco tempo l’entusiasmo andava diminuendo. Mi convinsi che la decadenza non dipendeva dall’invenzione in se stessa, ma sibbene dall’indirizzo sbagliato dato da quei tali che avevano avuto la fortuna di averlo per primi per lo sfruttamento. Difatti assoluta negligenza nel macchinario, pellicole e films ridotte in uno stato deplorevole, ambienti inadeguati e tenuti male, prezzi d’ingresso relativamente alti. Io ebbi l’intuito che il cinematografo dovesse avere un gran avvenire.” Bisogna aggiungere che sicuramente fu uno dei primi in Italia: “Un amico che si convinse del mio ragionamento entrò in società con me e fu aperta una sala cinematografica corrispondente alle mie idee, con prezzo d’ingresso di centesimi venti. Il successo superò l’aspettativa.” E fu così, che nacque la sala Edison a Firenze. Voglio ricordare che dal 1° maggio 1897, i Lumière avevano messo in vendita l’apparecchio. “Costretto a lasciare Firenze, poiché il mio ufficio si trasferì a Roma, arrivai di nuovo alla capitale con la ferma volontà di ripetere quanto io avevo detto e fatto in Firenze. Apriti cielo! Le più belle risposte erano queste: Tu sei matto, tu sei ubriaco, il cinematografo a Roma. Via… il romano preferisce l’osteria…, e così di seguito. Non mi avvilii… e, tenace come sempre, trovai facilmente chi mi assecondasse nell’impresa.”

Il 20 gennaio 1904, apre i battenti il Cinematografo Moderno a piazza Esedra 65-67, (lungo 20m., posti 180), al pianoterra del Hotel Michel, poi diventato il caffè Moderno. Alberini non è soltanto il co-proprietario, ma il direttore tecnico, aprendo succursali a Napoli (Via Guglielmo S. Felice, 57) e a Palermo, al prestigioso Teatro Biondo. L’Impresa del Cinema Moderno, negli anni, gestiva anche le proiezione al Teatro Costanzi e il Salone Lumière a Piazza del Gesù (Palazzo Altieri).

Verso la fine del 1904, insieme a Dante Santoni, Filoteo Alberini fonda la prima Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni.

E qui ci fermiamo per adesso, domani il seguito…