Retaggio d’odio al Teatro Cines di Roma 27 Marzo 1914

Maria Carmi in una scena di Retaggio d’odio, messa in scena di Nino Oxilia

Ci giunge ancora in tutta la sua interezza la eco sonora del plauso che accompagnò lo splendido romanzo cinematografico del barone Alfa a Parigi, a Londra ed a Berlino.

Maria Carmi, l’interprete insuperabile della passionalità, l’artista fine ed elegante, ha prodigato in questa fortunatissima pièce tutti i tesori della sua arte e del suo temperamento. L’arte di Maria Carmi è sentimento, sul suo volto mobilissimo quasi come su specchio terso d’argento, i moti vicendevoli dell’anima dalla sfumatura sentimentale alla cocente passione d’amore e d’odio, si avvicendano e si alternano sempre armonici, sempre appropriati. Non eccessivi nel gesto e nell’incesso, ma misura, grazia e leggiadria. L’illustre prima attrice del Teatro Imperiale di Berlino mai forse nella sua carriera artistica, le cui tappe sono altrettanti trionfi, ha raggiunto, come in questa film, la perfezione.

La sua bellezza plastica si adatta al personaggio che incarna circondando, quasi perfetta cornice, un perfetto capolavoro d’arte.

Pina Menichelli, la deliziosa artista alla cui grazia feminea si aggiunge e si avvicenda la vivacità e il sentimento profondo, completa per virtù di contrasto la torbida passionalità della Carmi. Dalla unione di due arti diverse ma egualmente sentite, dalla fusione di due caratteri egualmente bene delineati, dolcezza, ingenuità, amore semplice e puro, con bontà e fiducia che, atrocemente ingannate, si trasformano al fuoco della vita in forti fiamme d’odio insaziabile, sprizza come scintilla da ferro incandescente percosso, la trama del romanzo che si svolge, si snoda, trova campo di espandersi in ambienti diversi, che la sapiente genialità dell’autore, con artistico avvicendamento, ha connesso alla trama.

Il conte di Lagoscuro vive con l’affetto e per l’affetto delle sue figlie Maria e Bianca; Maria seguendo l’impulso di un cuore ardente, abbandona la casa e si dà intera all’uomo che adora. Tradita ed abbandonata, conosce tutte le amarezze e le insidie della vita, precipita e risorge, finchè trova nell’arte trionfi e ricchezze.

Bianca a sua volta, quando è prossima l’ora della sua felicità, viene crudelmente respinta dall’uomo che adora, il quale le rimprovera il passato della sorella, e la buona, la dolce Bianca, piega come fiore reciso sullo stelo. Maria , vendica la triste sorte della sorella, e l’uomo che spezzò il cuore alla sua Bianca, cade infranto dalla di lei volontà materiata d’odio, di rabbia e di astuzia!

L’amore, la compassione forse, per l’ uomo divenuto sua vittima, si insinua nel suo cuore domandando tregua, ma la meta da raggiungere è quella giurata: ad essa bisogna arrivare, soffocando scrupoli, spasimi, terrori; ad essa Maria giunge, e solo quando l’odio deve cessare perché una tomba si è schiusa, allora soltanto due labbra vive sfiorano due labbra gelide ed esangui.

Per rendere alla perfezione mediante l’artificio mimico tutta la gamma della passionalità che il personaggio deve rivestire non si poteva ricorrere che a Maria Carmi, la quale corrispose alla esigente aspettativa nel modo più completo e perfetto. Gli applausi di pubblici difficili ed esigenti quali quelli di Parigi, di Londra e di Berlino, hanno aggiunto nuovi allori alla corona di Maria Carmi, ed hanno posto Pina Menichelli nel novero delle grandi artiste cinematografiche.

Giovedì il «Teatro Cines» proietterà questo vero capolavoro d’arte e di sentimento, messo in scena con sfarzo e perfetta ricostruzione di ambiente dalla Cines, e crediamo che il grande pubblico romano e la critica serena saprà unire la sua voce al coro possente di plausi che ha unito a Parigi e a Londra i nomi di Maria Carmi, Pina Menichelli, della Cines e del barone Alfa, il geniale ideatore di un grande romanzo cinematografico, fatto di sentimento, amore e passione, che si avvicendano su splendidi sfondi scenici e drammatici.

(dal volantino del Teatro Cines, già Apollo, Venerdì 27 marzo 1914)

La Morsa della Morte Giglio Films 1915

Cinema Splendor, Torino, 18 gennaio 1915

La film veramente appare con la marca della Ditta Giglio, perché Mario Bonnard, il titolare della nuova Casa, trovandosi richiamato in servizio militare, non potè prender parte alla esecuzione della sua prima film, la quale perciò, vergognosa di essere della «Bonnard» senza Bonnard, si riparò sotto le pudiche virginee insegne del Giglio.

Se volessi ricercare la paternità del soggetto, o almeno la provenienza prima, dovrei forse recarmi in Silistria. Certo la trama è diversa, ma chi può negare che i caratteri generali dell’azione cinematografica immaginata dal Mazzolotti non ricordino molto da vicino quella serie di avventure che la Casa Pasquali ha fatte accadere nell’immaginario Stato di Silistria?

Un intrigo dinastico, piccolo e anacronistico, è la base della commedia drammatica del Mazzolotti. Un matrimonio morganatico, un figlio di principe che non sa l’essere suo, una principessa sua cugina che ricerca il cugino scomparso, e lo ritrova nell’ufficiale che la accompagnava e del quale si era innamorata, una Società segreta creata dal ministro che vuole sbarazzarsi dell’incomodo cugino, e, infine, la scoperta di ogni cosa, la punizione del ministro fellone e traditore, e la felicità dei due giovani, uniti dal destino e dalle avversità. Questo lo scheletro del soggetto, incarnato con molta abilità dal Mazzolotti che seppe trarne un dramma interessante e suggestivo.

La messa in scena, molto pregevole in alcuni punti, è, in altri, un po’ trascurata. Occorre del resto pensare che in quel tempo il Mazzolotti fu anch’esso richiamato sotto le armi, e ognuno può comprendere che non poteva avere il tempo e la calma per condurre alla perfezione l’opera sua.

Eccellente l’interpretazione artistica. Squisita Cristina Ruspoli dalla grazia e dall’incesso veramente principesco, ottime la signora Fosca ed Elide De Sevre. Discreto il Casaleggio che fece quanto poteva in una parte superiore alle sue forze. Discreto anche il Metellio, ed efficacissimo Luigi Duse nella parte del ministro.

Belle le scene, ricchi e armonici gli ambienti. Assai bella la fotografia.

(La Cinematografia Italiana ed Estera)

Povera Tisa! Povera madre! Film Dora 1913

Pubblicità della Film Dora (La Vita Cinematografica 15 giugno 1913 © Museo Nazionale del Cinema)

È un lavoro drammaticissimo, con situazioni strazianti, impostato su di uno spunto soffuso di amor materno e svolto con convincente verismo e con arte impeccabile. La protagonista Notari (l’autrice stessa del soggetto) si è investita talmente nella parte di questa sposa e madre infelice, da farne una creazione. Il dramma otterrà certamente un esito lietissimo e noi lo auguriamo di cuore, facendo i nostri complimenti all’artista ed alla Casa editrice, che con costanza sta facendosi largo fra le consorelle italiane.

Lo giudicavano indifferente, ma il conte Giulio Deni aveva sofferto da impazzirne, quando gli dissero per la prima volta che la contessa Lea, la madre del suo figlio, era ammalata di tisi.

Credette ad una pazzia dei medici e girò tutta l’Europa in cerca di un salvatore, inutilmente. Così perché ella aveva voluto, ed anche perché i medici lo vollero, i conti Deni ed il figlio Mario partirono per la bella Napoli, e sotto la volta di questo mite ed azzurro cielo, incominciarono la vita di albergo, fra l’attenzione di tutti gli ospiti dell’Hotel, che circondavano la contessa Lea di simpatia profonda.

Una sera il dottore Velli assieme ad altri era intento a giuocare nella gran sala dell’Hotel, allorquando fu chiamato in fretta.

La contessa stava male. Poi bastarono per far comprendere al medico l’intimo dramma di quella famiglia: per un eccesso di amore il conte era diventato egoista sino alla crudeltà! Sapendo sua moglie vittima dello spietato male, lo aveva preso la paura di veder continuato nel figlio il supplizio della madre, ed ignaro dello strazio che infliggeva alla condannata, vegliava più geloso di una belva, più spietato di un aguzzino, ad impedire l’espansione del più sacro degli affetti, inquieto per un amplesso, pazzo di terrore per un bacio, che gli avrebbe fatto soffiare sul viso del figlio il suo respiro avvelenato.

Intanto il dottore Velli, ch’era diventato più che medico, l’amico della contessa, quella storia triste che aveva scoperto l’aveva impressionato; nessun esempio di egoismo umano gli era parso spietato è infame come quello del conte, pur causato da un legittimo e sacro diritto: come medico non dava torto al padre, come uomo pensava alle torture di quella madre… e l’uomo condannava il medico, e diventò il suo complice. Riusciva a deludere la sorveglianza del conte e della governante per permettere a quell’infelice di baciare suo figlio, e in questi baci furtivi essa riviveva, dimenticava il terrore della morte; ma quando il piccolo doveva allontanarsi in lei scompariva la vita, ed il bimbo comprendeva tutto il dolore della mamma; quel bimbo aveva l’anima straziata.

Un giorno avvenne una catastrofe: il dottore sorprese la governante a maltrattare Mario, che singhiozzava, aperse con violenza l’uscio, ma non ebbe tempo di accorrere a lui: un colpo fortissimo venuto dalla stanza attigua, come corpo caduto a terra lo spaventò, la contessa gridò, e corse come un pazzo nella sua camera: Lea giaceva distesa al suolo, gli occhi spalancati.

La sollevò, l’interrogò: — Avete udito, dottore? — rispose: mio figlio piange, lo hanno battuto, dottore, riprese fissandolo coi suoi occhi pieni del mistero della morte, lasciatemi portar via mio figlio! La sua mano s’irrigidiva, il suo viso era straziante: non voleva morire! Portatemelo, voglio baciarlo ancora una volta, abbiate pietà, dottore! E il dottore sembrava che non avrebbe potuto liberarsi di quegli occhi straziantemente imploranti: voglio vederlo, supplicò ancora agonizzante… ve…der…lo !…

Egli perdette la testa, si gettò fuori come pazzo… il medico diventò uomo, si trovò nella stanza del bimbo che, solo nella sua camera, singhiozzava ancora, e baciava a riprese il ritratto della mamma, lo prese fra le braccia e si precipitò nella stanza della morente. Ella li vide! Era trasfigurata: aperse le braccia alla sua creatura, che serrò selvaggiamente al cuore, mentre il dottore cadde ai piedi del letto, sopraffatto dall’emozione… udì singhiozzare tre volte, da una voce che non aveva più nulla d’umano, poi silenzio… Si alzò barcollando: uno spettacolo terribile l’aspettava. Le due creature che sì erano tanto amate e cercate, giacevano sul guanciale, strette in un bacio supremo: quella madre aveva soffocato di baci il figlio suo! Dio, a mezzo dell’uomo, non del medico, aveva permesso che quella donna, che dell’ amore conosceva solo il pianto, e della maternità solamente il prezzo supremo, aveva ben diritto di portarsi via la sua creatura!