L’inaugurazione del Cinema-Teatro Odeon a Milano

Cinema Odeon, Milano. Sala principale.

Ex tenebris vita: il motto che sovrasta il grande cornicione policromo di questo nuovo tempio dedicato all’arte della luce e del suono, è motto che ha qui un valore anche più vasto, quasi a simbolo di quella rinascenza architettonica di cui da qualche anno la nuova Milano artisticamente s’abbella. Sull’area di vecchie e modeste case, a pochi metri dal Duomo famoso e fastoso, è sorto il nuovo grande masso scolpito nel cemento, nel travertino, nel marmo, dove, con altri luoghi destinati al riposo dei nervi e al diletto dello spirito, l’«Odeon » fa scintillare i fasti delle sue luci e risonare l’onda delle sue orchestre.

Sorto, in breve tempo, per la volontà di quella Società a cui si deve tutta la nuova sistemazione edilizia di via Agnello, e per l’arte dell’architetto Avati, l’«Odeon» ha inaugurato le sue sale il 26 novembre, con una cerimonia semplice a un tempo e solenne, alla quale hanno dato carattere e lustro i migliori nomi della politica, dell’arte e dell’aristocrazia milanese.

Servizio d’ordine pubblico con tanto di carabinieri all’esterno, sale gremite all’interno. Fracks, smockings, sete, pellicce; lusso da per tutto, ben degno fra queste pareti tappezzate di damaschi e di velluti dalle mille colorazioni e dai mille disegni. L’ing. Arcioni, il quale ha ideato e costruito un impianto elettrico che da solo è un monumento d’arte autentica, ci dà, nell’attesa dell’oratore ufficiale Innocenzo Cappa, qualche saggio del miracolo luminoso che ha saputo creare. Lievi dissolvenze di luci, accennate appena, delicate come in sordina. Il pieno, la sinfonia verrà più tardi, dopo il viatico dell’inesauribile Cappa che parla per circa un’ora, sotto l’arco angolare dell’immensa cornice tricolore che adorna il boccascena. L’oratore, dinanzi al pubblico enorme che ha per esponenti il Podestà trentenne, il Prefetto, il generale comandante il Corpo d’armata, dice parole di lode e parole di speranza che debbono sonare benignamente agli orecchi dei Dirigenti, sì, ma che rappresentano anche, per essi, un impegno formale per l’avvenire, poiché l’«Odeon», nome pagano, impone responsabilità tremende in fatto d’arte e di bellezza.

L’applauso al Cappa è sincero, come è sincero quello che il pubblico consacra all’orchestra che interpreta magistralmente una sinfonia rossiniana. Ed è qui appunto che si espande, all’unisono con quella musicale, la sinfonia luminosa dalle mille sorgenti nascoste e verticolori. Toni brillanti che appassiscono lentamente si piegano su semitoni discreti, lievi, dissolvendosi in colorazioni or più calde or più fredde, di cui si tingono le cornici, le tele, le tappezzerie, i velluti, di cui risfavillano gli ori, e si rivestono, con mimetismo condiscendente, gli splendidissimi marmi.

Per ogni tono decade, si spegne: e, dalla tenebra, una nuovi luce è fatta. Il bianco telone, rivelatosi sotto il triplice schermo dei pesanti sipari, si fregia anch’esso, a suo modo, d’una bellezza tutta italiana: è il film dell’Istituto «Luce» sulla spedizione del Barone Franchetti in Dancalia, La nobile missione del Franchetti, che attraverso patimenti inenarrabili è riuscito a trovare e a riportare in patria i resti sacri della tragica spedizione Giulietti, trucidata dai predoni dancali, suscita nuovi applausi e nuovo commosso entusiasmo, Entusiamo che, all’uscita, ha certo mitigato gli effetti della dolorosa sorpresa d’una Milano sepolta nella nebbia notturna.

E ora due parole più proprie su questo «Odeon» che non commoverebbe certo meno la resuscitata Regilla di quello che l’avrebbe commossa il devoto dono di Erode Attico. Sotto la guida del provvido comm. Coscia, direttore del teatro, visitiamo questa gigantesca e leggiadra amalgama di sete è di stucchi, di legni preziosi e di tappeti discreti, di alabastri e di vetrate.

La grande sala d’ingresso, il gigantesco tortile scalone tutto in marmo, le numerose sala d’aspetto, ricche di mobili sobrii e leggiadrissimi, ogni particolare, ogni angolo, ogni più riposta finitura ha il suo chic particolare, la sua grazia caratteristica. Gli artefici di queste bellezze? Da primo, s’è detto, l’architetto Avati; quindi l’Impresa Costruzioni Cadola con gli ingegneri Baroni e Luling. L’ing. Arcioni ha compiuto il miracolo delle luci; Galanti quello del palcoscenico, e il sacerdote Barbieri, infine, quello dell’orchestrale, costituita da due organi poderosi le cui canne sono in parte dissimulate nella grande cornice del boccascena. I marmi sono stati intagliati dalla ditta Robson di Carrara, i legni dal Bega di Bologna.

Altri nomi, egualmente degni, forse dimentichiamo; ma a tutti va l’elogio eguale e sincero per l’ingegno, la volontà e la perizia onde è sorto questo magnifico tempio della musica e della luce.

Aldo Gabrielli, Milano novembre 1929

Prime visioni Roma: Sole

Sole di Alessandro Blasetti 1929

(Augustus – al Cinema Moderno e Corso)

Roma, novembre 1929
L’Ente Nazionale per la Cinematografia non poteva iniziare meglio ia presentazione delle sue esclusività: realizzato in Italia da italiani, «Sole» ha dimostrato chiaramente che da noi si può fare del buon cinematografo, anche senza quella tale larghezza di mezzi, ritenuta finora indispensabile alla creazione di opere memorabili e significative.
Già molto s’è parlato di questo lavoro e per non correre il rischio di ripetere cose già dette, mi limiterò ad esporre la mia opinione personale: francamente «Sole», oltre che piacermi, mi ha meravigliato; mi sono tornate alla memoria alcune parole di un molto criticato discorso di Bontempelli: («….la rinascita non può esser compiuta che dai nullatenenti, dagli incompetenti…») e mai come adesso le ho trovate giuste e vere.

Se questo gruppo di giovani dell’«Augustus» si fosse presentato ad una delle poche case italiane manifestando la sua intenzione di lavorare, sarebbe stato respinto come tanti altri che, ingenuamente, mandano fotografie e copioni: invece solo nella sua passione ha trovato incoraggiamento, aiuto, ispirazione.

Fin dalle prime scene il film afferra e interessa: l’obiettivo osserva e studia i volti rudi ed espressivi degli uomini della palude, li cerca nelle loro bettole, nelle loro case, ritrae del loro animo gli impulsi buoni o cattivi.

Da tutti, indistintamente, coloro che prendono parte all’azione, Alessandro Blasetti ha ottenuto il massimo rendimento, così che mai come qui abbiamo visto degli attori nuovi lavorare in modo così perfetto.

Se si accettuano Vasco Creti e Marcello Spada, interpreti ottimi di due importanti ruoli, tutti gli altri hanno debuttato in questo film; eccone i nomi: Dria Paola, Anna Vinci, Lia Bosco, Vittorio Vaser, Rolando Costantino, Armando Baldaccini, Sante Bonaldo, Rinaldo Rinaldi; quest’ultimo ha curato lodevolmente il «maquillage» degli artisti.

Il soggetto è di Aldo Vergano, la scenografia di Gastone Medin, del quale abbiamo ammirato dei caratteristici interni e dei riusciti «esterni in studio».

Bellissima la fotografia di Giuseppe Caracciolo.

Con la consueta competenza, i Maestri De Risi e Steccanella hanno preparato un suggestivo commento musicale e vocale.

La grande folla accorsa i primi giorni fa prevedere molte repliche.

Alberto Albertazzi

Viale del tramonto

Il cantante di Jazz film parlante al Vitaphone

Roma, novembre 1917. Siamo appena arrivati qui, dal Veneto, sospinti dall’onda portante di quella che il poeta E. A. Mario definirà, nella prossima stesura della sua canzone più celebre, « l’onta consumata a Caporetto ». Roma ci ha accolti con abbacchio, pane senza tessera e tutte le luci accese. Io frequento la quarta classe elementare in via degli incurabili, per tornare a casa, attraverso il Corso, da San Carlo a San Lorenzo in Lucina, dove il Cinema Corso ha aperto da poco la sua lussuosissima sala al pubblico.
L’arteria papale-umbertina del centro non ha perduto ancora il suo carattere di salotto buono della Capitale, l’omnibus a cavalli traballa da Piazza Venezia al Pincio, alle automobili si alternano botticelle e carrozze padronali, specie verso l’imbrunire, quando davanti ad Aragno e a Ronzi e Singer, gli ultimi “generoni”, i deputati, gli ufficiali addetti al Ministero e gli uomini di mondo assistono al passeggio sfogliando Il Giornale d’Italia. È a quell’ora che transito anch’io, occupandomi soprattutto delle vetrine e dei giornaletti appesi al chiosco sull’angolo di via San Silvestro. A un tratto (è quasi notte) la folla sui marciapiedi si fa attenta, i clienti d’Aragno s’alzano in piedi dietro ai tavoli su cui fumigano barbugliate e caffè-cuccuma: al trotto di due morelli, cocchiere e groom a casetta, passa un landau aperto, sui cuscini rosa, accanto a una vecchia gentildonna (il madro, in linguaggio dell’epoca) una fulgida visione, pelliccia d’ermellino, calottina coperta di fili d’uccello del paradiso, capelli biondi, labbro sdegnosetto sul pallore etereo delle gote. « La Borelli! Lyda Borelli! » mormora la folla, riverente ed ammirata, e solo quando il landau è scomparso oltre palazzo Chigi, civili e militari riprendono il loro posto ai tavoli di ghisa e marmo.
Massimo Alberini 

Le guerre mondiali hanno avuto una parte molto importante nella storia del cinema italiano. Fu durante la prima che si svilupparono i germi del divismo e degli altri mali che provocarono il crollo della nostra industria molto prima che terminasse il periodo del “muto”. Dobbiamo invece alla seconda guerra la fine precipitosa dei film “che parlano al vostro cuore”. In entrambi i casi la crisi fu fatale agli attori. Infatti alla ripresa dei lavori di dovette constatare la totale scomparsa di quelli che erano stati i beniamini del pubblico e la loro sostituzione con elementi assolutamente nuovi. Come maturò questo fenomeno e che conseguenze ebbe sulla vita delle vittime?

Ritorniamo al 1918, epoca d’oro per i “tragici del silenzio”. Una settantina di case di produzione allestiscono una media di 450 film immediatamente assorbiti dal mercato. Il divismo è alla portata di tutte le borse: basta seguire la ricetta-decalogo di Giuseppe Adani:

1) Crearsi dei precedenti fatali; possibilmente un suicidio sulla coscienza. 2) Fare un debito con le principali sartorie del regno e trovare l’avalante. 3) Amare un poeta indiano sconosciuto. (Non è necessario amare il poeta, bastano le sue opere). 4) Portare spesso sottobraccio Shakespeare in inglese o Tolstoi in russo. 5) Far spargere molte voci sul proprio conto e molti manifesti col proprio nome. 6) Fra tutte queste voci dar credito alla più grave e alla più stramba. 7) Interessarsi alla singolare vita intima degli insetti. 8) Soffrire d’insonnia e adorare la morfina. 9) Rinnegare i parenti poveri e procurarsi degli antenati di buona famiglia. 10) Parlare sempre d’arte senza capirne mai.

Con un vademecum di questo genere il numero delle “insuperabili artiste” aumenta paurosamente. Aziende bene avviate crollano e comincia la danza delle cambiali. Nessuno ha il tempo di occuparsi dell’industria americana che offre i suoi film sottocosto impegnandosi a pagare anche le spese di trasporto e di dogana. La crisi galoppa, ma qualche produttore cerca di mettersi al passo e, annunciando una “cinematografia d’eccezione”, promette: sottomarini, piroscafi, aeroplani, treni, castelli, giardini, salotti, montagne, ghiacciai, artiste bellissime e artisti magnifici, masse imponenti e situazioni drammaticissime, interesse continuo e crescente, comicità, sentimento, novità.

È la fine. Le divine sentono odore di bruciato: molte emigrano, altre si sposano divenendo, per lo più, contesse. Anche i divi vanno all’estero o passano alla regia. Li ritroviamo nei film importati dalla Francia, dalla Germania e dall’America. Intanto Pittaluga presenta al Supercinema il primo film sonoro e Luigi Pirandello esclama: « Orrore, orrore: hanno ucciso il silenzio ». Sarà poi lui a fornire il soggetto per il primo film parlato italiano. Ma gli spettatori cercano invano fra i protagonisti parlanti i nomi e i volti dei tragici del silenzio. Che cosa era successo?

Abbandonati gli sparati candidi, i vasetti di nerofumo e i serpenti di piume, ognuno di loro aveva dovuto seguire un destino.

(immagine e testo archivio in penombra, segue)