Cinquecento ne ho girate; sì, dico, di comiche finali durante i dodici anni della mia carriera di comico cinematografico. Cinquecento, una più incoerente, scema, gustosa e ridicola dell’altra. Si sa, allora era d’obbligo asciugare le copiose lagrime del pubblico dopo i drammoni a base di svenimenti, omicidi, singhiozzi delle dive e dei divi: era d’obbligo fargli ritornare il sorriso sulle labbra, riconfermargli che non aveva poi speso troppo male il suo denaro e riconciliarlo, nel tempo stesso, con la vita. Bisognava assicurarlo che oltre alla tristissima, disperata vicenda a cui aveva assistito, riempiendo di generose lagrime e di rumorose soffiate di naso il suo fazzoletto, esisteva pure un altro genere di guai e di avventure entro cui Polidor cercava di divincolarsi per uscirne meglio che fosse possibile, ma senza cavarci gran risultato. Si trattava della suocera, del padrone di casa, del macellaio, del creditore, dell’agente delle tasse con cui Polidor doveva fare i conti a base di capitomboli collettivi, scodelle di panna montata lanciate in faccia, corse affannose lungo i marciapiedi, agguati a tutti i cantoni e finali sotto le sottane della nonna o fra le gambe del ferocissimo padre della fanciulla amata.
E il pubblico se la rideva; se la rideva a tutte ganasce, dimenticando tristezze e lagrime, faceva tremare la volta del cinema e scricchiolare quella delle poltrone, usciva dalla sala, insomma, divertito, soddisfatto e ben disposto verso l’avvenire.
— Ma allora — voi mi direte — tutto l’effetto drammatico e principale del film, il motivo insomma per cui i produttori avevano speso e rischiato, i soggettisti, sudato al loro tavolo durante le lunghe veglie notturne, e gli attori sofferto e vissuto dinanzi allo schermo, andava a farsi benedire! Certo era molto più divertente, allora, vedere il pubblico per tre buoni quarti d’ora fremere e partecipare perfino con grida soffocate all’indirizzo dei protagonisti a base di: « Assassino! Vigliacco!… No, no Clotilde non accettare!… Presto, presto!… È lui il colpevole!… Saverio!… » e nell’ultimo quarto d’ora della comica finale, rotolarsi e finire sotto le poltrone; che assistere, oggi, ad uno spettacolo cinematografico dove lo stesso pubblico non ha l’aria di commettere né l’uno né l’altro guaio!
L’unica comica però, la sola forse… che riuscì a divertire anche me, fu certo la mia prima uscita sulla pista del famoso circo equestre Guillaume di cui era stato creatore e proprietario mio nonno. Le nuove generazioni non possono ricordare i fasti del circo equestre di un tempo: le banderuole variopinte, la bizzarria del colori, il movimento delle masse, lo sfolgorio dei costumi, i cavalli, le fiere, gli elefanti ammaestrati, i domatori rutilanti d’oro e di scarlatto, le fruste sibilanti, le musiche, i ginnasti, le cavallerizze in maglia rosa e la segatura. Ebbene io sono nato tra tutto quel luccichio di vetri colorati, a bordo di un enorme carrozzone, il secondo, credo, della lunga fila, su cui era scritto a vistose lettere: « Grande Circo Equestre Guillaume ». Mio padre e mio nonno mi avevano insegnato il mestiere del ginnasta, ma il mio primo debutto fu di uscire, piccolo com’ero, da una delle capaci tasche del costume di mio padre, in piena arena, destando l’immediata e fragorosa ilarità del pubblico.
Ho seguitato, poi, per molto tempo nel circo equestre di mio nonno, il mio mestiere di acrobata comico (perché la comicità è stata sempre la mia passione), producendomi in ogni sorta di esercizi, salti mortali, voli sul trapezio; e il mio nome già cominciava a farsi luce: Ferdinand Guillaume, ginnasta. Lavoravo da solo e in compagnia ed ero diventato un numero di grande attrazione.
Come fu poi che da ginnasta, passai nel 1908 alla Cines con l’agile e intelligente nome di Tontolini è facile ricordarlo. Allora, il genere comico, in cinematografia, esigeva dei provetti ginnasti, i cosiddetti « cascatori », attori che, oltre a possedere la dote di saper far ridere, conoscessero a perfezione anche quella di saper saltare generalmente dalle finestre, per quei motivi indiscutibili a causa delle buone maniere di moda vent’anni fa a cui si attenevano le suocere, i ferocissimi padri e i creditori ostinati e terribili. Evidentemente fui notato dai dirigenti della celebre casa romana venuti ad assistere a uno spettacolo del nostro circo equestre e immediatamente scritturato a condizioni che allora si dicevano vantaggiosissime e che per la storia è bene ricordare che erano… di mille lire al mese.
Con il nome di Tontolini, nome depositato e di cui era proprietaria la Cines, girai le prime scene comiche che ebbero subito un grande successo in quei tempi. Di quei film a corto metraggio come di tutte le mie scene comiche non so se oggi sia rimasta ancora qualche copia. Le poche che possedevo personalmente e le numerose fotografie le perdetti tutte, anni or sono, nel famoso incendio dei Magazzini Gondrand, a Milano, dove avevo depositato tutto il mio bagaglio. Bagaglio che rimpiango profondamente e che avrebbe servito a qualche interessante riesumazione di come, allora, si girava e s’intendeva un film comico. Indubbiamente, oggi il genere è completamente mutato, anche e soprattutto perché il pubblico più esperto e smaliziato ha perduto l’ingenuo e semplicistico interesse con cui seguiva lo spettacolo comico. L’umorismo dei tempi moderni si serve di formule più complicate, certo più intelligenti, dove l’attore è soltanto ed eminentemente attore comico e al cui successo intervengono fattori e formule prese in prestito e sottilmente satirizzate dalla vita di ogni giorno. Macchiette e situazioni sono gli elementi principali di cui si serve l’attore comico moderno, a differenza di una volta in cui solo effetti plateali e qualche volta grossolani costituivano il suo maggior campo di azione.
Non intendo con ciò ripudiare tutti gli anni della mia carriera cinematografica: ogni tempo il suo costume. Ed io ho servito quel costume e quelle regole che allora andavano di moda, non diversamente da molti altri miei colleghi come Robinet e Vaser e altri celebri, quali Cretinetti in Francia, Ridolini in America, benché sorto molto tempo dopo di me, e soprattutto il celebre e indimenticabile amico Max Linder, il comico più interessante dopo Charlot. Abbiamo divertito una generazione di spettatori con i nostri salti, e le nostre smorfie. E ancora oggi ci si ricorda di tutti noi con simpatia e con un leggero sorriso, velato forse di melanconia, poiché gli anni passano per Polidor e per tutti, disgraziatamente, e le risate che si facevano una volta, quelle belle risate a singhiozzo, paonazze e pericolosissime per i cagionevoli di cuore, oggi, non si fanno più.
Tant’è: dalla Cines passai nel 1910 alla Pasquali di Torino, ma non più con il nome di Tontolini, rimasto di proprietà della Cines; ma con il nome, poi diventato celebre, di Polidor.
Da dove io abbia preso questo nome, è una domanda che molti mi hanno fatto.
Niente di trascendentale! Mi ricordavo, chissà perché, di una vecchia commedia francese dove c’era un cameriere duro di orecchi, di nome precisamente Polidor. Me lo infilai dunque come un abito già confezionato: e infine, convenimmo, io e i miei produttori, che Polidor si pronunciava bene e in egual modo in tutte le lingue, indispensabile elemento, allora, in cui il cinema italiano comandava ed era alla testa del mercato mondiale.
Lavorai cinque anni a Torino, fino al 1915, epoca in cui mi trasferii di nuovo a Roma scritturato dalla Tiber e dopo un anno dalla Caesar. Furono gli anni del mio maggior lavoro e insieme del mio più grande successo. Oltre a innumerevoli scene comiche girai anche dei film normali, a lungo metraggio quali Pinocchio, di cui feci una creazione personale, e che mi valse un consenso di pubblico e di critica eccezionali per quei tempi (Cines 1911); Astrea, la donna Maciste e Polidor, il re delle banane, ecc.
(fine parte prima)
Ferdinand Guillaume