Roma, ottobre 1914. È un bel tramonto: i colli Albani sembrano immersi in una nube di viola e d’oro. Non so, tutto mi sembra più bello questa sera, nella mia casa fasciata di silenzio e di ombre verdi. Forse perché parto domani. Tutte le volte che lascio una delle mie case, mi par di lasciarvi un po’ della mia vita sfiorente. Oggi sono anche più malinconico. Sono venuti a trovarmi molti amici — ho molti amici in Roma — e tutti mi hanno domandato se sia vero ch’io abbandono le scene per sempre. In fondo, questa meraviglia e questo dolore accarezzavano il mio piccolo orgoglio di uomo e di artista. Mi vogliono bene, non vorrebbero che io me ne andassi… Tuttavia, come si fa? gli anni passano. Mi sento proprio stanco, stanco. Di che? Della mia Arte? No davvero. L’adoro sempre come quando avevo vent’anni.
(…)
Un trillo di campanello. Una visita? Sicuro.
La mia bimba mi annuncia la visitatrice: è Lyda Borelli. Arriva tra un fruscìo di veli e una nube di profumo. È pallida, stanca, i grandi occhi languidi hanno palpiti di farfalla moribonda. Mi tende la mano come se mi offrisse un pegno di bellezza e di grazia. Ma è tanto stanca. Siede, con un sospiro. La bimba le ficca gli occhi curiosi addosso: trema di ammirazione e di gioia. L’ha sempre vista da lontano, Lyda Borelli, e nel suo piccolo cervello se ne è fatta un’idea vaga d’una meraviglia che non corrisponde, forse, alla esatta realtà materiale… Ma infine, è lei, è Lyda, la bellissima, con i capelli un po’ sciolti intorno alle tempie, la bocca simile a una ferita, la gola bianca, immensamente bianca nella cornice di seta oscura dell’abito.
— Sono stanca, sì — dice soavemente Lyda, guardandosi un dito — una gita in automobile disgraziata… sapete… la cinematografia!… Oh! Dio, che afflizione! Abbiamo corso per le colline, come pazzi… poi ci è scoppiata una gomma… poi una panne di motore.. una giornata faticosissima! tutto per niente. Forse per meno di cinquantamila lire!… ma! ormai sono impegnata.
La conversazione prima si aggira su la cinematografia, poi su le automobili, su la temperatura, su la guerra europea. In ultimo, prima di alzarsi, Lyda mi dice:
— A proposito. Come andremo nella vostra compagnia? Io studio… Voi sarete il Direttore… Io sarò la vostra prima donna… Ma pensate! quanta fatica dovrò superare!… A rivederci!…
Se n’è andata, col solito fruscìo, nella solita nube di profumo. La sua automobile si è perduta nell’ombra del viale, mentre in alto le prime stelle vacillavano, come se l’acuta tramontana che imbianca le strade passasse su di loro e le facesse vibrare dal freddo…
Ermete Novelli
Quattro o cinque anni fa, per puro caso, ho ritrovato una copia di Foglietti sparsi narranti la mia vita di Ermete Novelli, raccolti dal figlio Enrico, in arte Yambo. Avevo già in biblioteca una copia acquistata molti anni prima, ma in omaggio a un ex-libris di Amerigo Manzini in seconda di copertina, ho acquistato anche questo esemplare.
Nel volume, la vita di questo grande personaggio del palcoscenico è raccontata dal protagonista con molta semplicità e “sense of humour”:
« Il mio ritratto esteriore eccolo qui sopra. Mamma natura non mi è stata prodiga di favori, ma pensando che poteva essere anche più avara mi contento e tiro via! Oh!… in quanto all’interno, bisogna convenire che la medaglia ha un miglior rovescio. Di carattere, mite e buono… perfino anche tre volte! Cuore tenerissimo, tranne quando s’avvede che lo si tradisce… in allora ha dei battiti da belva!… Ingegno pronto, scusate la modestia, spirito minuziosamente osservatore; memoria prodigiosa, facilissima nell’apprendere, quanto pronta a dimenticare… specialmente le cattiverie altrui. Nervoso e sospettoso come un gatto, affezionato come un… cane. (…) Quattro grandi passioni, dopo la grandissima per la mia famiglia: la Patria, l’Arte, le anticaglie… e le forbici, con le quali mi taglio i capelli da me! »
Novelli era nato a Lucca nel 1851, figlio di un nobile, Alessandro, diseredato dalla famiglia per essersi rifiutato di vestire l’abito talare e ridotto per vivere, a far da suggeritore in alcune compagnie drammatiche. Al figlio aveva imposto, come si dice, un secondo nome di battesimo: Pubblico, e mai nome fu forse più appropriato di questo.
Ermete Novelli aveva in sé, con quelle dell’attore, tante altre esperienze di teatro: era stato macchinista, truccatore e fabbricante di parrucche, quando anche le parrucche contribuivano a consacrare alla storia gli attori. E chi meglio di lui poteva pettinarle e arruffarle. Era stato quello il periodo più singolare della sua vita, aveva imparato, da solo, il segreto delle più suggestive e clamorose acconciature del crine e della stoppa.
Versatile fino al punto da diventare caratterista ed assumere a trentatré anni il “capocomicato”, iniziando così la sua grande avventura. Avventura non tanto perché la fortuna gli fosse avversa, che anzi lo favorì presto di onori e ricchezze, ma perché, sia pure attraverso le alterne vicende che lo accompagnarono, in patria e per il mondo, la sua compagnia e le sue fatiche, Novelli ebbe sempre dentro di sé il lievito, il desiderio e l’aspirazione di un superamento. La sua grande ambizione fu quella Casa di Goldoni, da lui voluta, per rammentare agli italiani che « quel nostro padre della commedia è morto senza tetto e senza pane, ed è giusto che un tetto lo abbia… almeno dopo morto ». Inaugurata il primo novembre 1900 al Teatro Valle di Roma, la Casa di Goldoni, che avrebbe dovuto essere in Italia l’equivalente di quella fondata a Parigi in ricordo di Molière, dopo aver consumato in tre anni quasi interamente il cospicuo patrimonio di Novelli, chiuse le sue porte e costrinse l’attore, forse stanco, certo disilluso, a riprendere il suo giro per il mondo, come ricorda il figlio Enrico:
« L’iniziativa nobilissima del mio povero Babbo non trovò fortuna presso gli aristarchi della critica e presso il pubblico che non ama i tentativi d’arte troppo prolungati. Forse Ermete Novelli ebbe il torto di non dispensare subito attribuzioni e titoli onorifici alla folla degli uomini illustri che avevano accolto la sua impresa con smodate manifestazioni di plauso. (…) Andò in Oriente, fece un lungo giro nei Balcani, tornò a Parigi, nel Belgio, in Germania, in Austria. La fortuna e i grandi successi arrisero di bel nuovo al magnifico attore che aveva conosciuto i vertici della gloria. Ma nei suoi viaggi, nelle sue peregrinazioni attraverso l’Europa e fin nelle remote regioni del centro America, egli non sapeva allontanare da sé la visione nostalgica del suo bel teatro di Roma, del suo Valle, della sua povera Casa di Goldoni! »
Nel gennaio del 1919, Ermete Novelli, trasportato a Napoli agonizzante da Benevento, moriva nella sua casa di via Chiaia 156, accanto al Teatro Sannazaro. Qualche mese dopo la sua morte, in una Galleria di via dei Mille, furono venduti all’asta i suoi mobili, i suoi quadri, le sue collezioni “goldoniane”, i suoi tanti oggetti d’arte: ultimi di quelli che avevano sfarzosamente arredato la casa di Venezia e il villino “Olga” di Rimini, chiamato così in omaggio alla seconda moglie Olga Giannini.
Di Ermete Novelli al “cinematografo” nel prossimo post…