Mario Bonnard racconta

La pantomima della morte
Mario Bonnard “essere incosciente” e Leda Gys in una scena del film La Pantomima della morte (1915)

La storia del cinema muto raccontata da chi l’ha vissuta.

Ai tempi del cinema muto un attore in voga lavorava senza riposo. Io ho interpretato fino a quattro film in un mese. Dal 1912 al 1915. Un’epoca in cui l’industria cinematografica italiana esisteva vigorosa. Pensate che a Torino, allora il maggior centro di produzione, lavoravano in media quindici troupes contemporaneamente. Nei cortili si aveva lo spettacolo imponente di decine e decine di automobili quando l’automobile era cosa rara.

Il pubblico ci adorava. Oggi si sanno molte cose sulla vita del cinematografo. Allora noi attori eravamo figure misteriose. Il pubblico ammirava in noi l’ombra, l’essere aldilà dell’umano; ci considerava come sacerdoti di una divinità che si manifestava in forma romantica. Perciò sopportava i nostri lunghi tableaux sullo schermo. Dall’estero scrivevano: «Mandateci un film di Mario Bonnard, in cui egli sia in abito da fantino, in pigiama, in divisa militare e dia molti baci».

Il soggetto si faceva su misura e con finale variabile. Per l’Italia bastava un normale finale drammatico; per l’Inghilterra puritana, ci volevano il bacio e il matrimonio; per la Russia, la morte. Un film che non finiva tragicamente, in Russia non andava. Il morto ci voleva ad ogni costo. E se uno era già previsto, bisognava aggiungerne un secondo. Del resto, a noi attori, non importava niente del soggetto. E non ci facevano saper niente. Il regista ci teneva a conservare il mistero e non rivelava l’intreccio. Volta per volta spiegava l’azione. L’uso di far leggere il copione è venuto dopo. Anzi, il regista ci dava spesso ad intendere frottole. All’andamento logico della vicenda ci pensava proprio lui, col montaggio. L’attore allora era un essere incosciente.

Mario Bonnard