
I primi atti dei suoi film si svolgevano quasi tutti nei giardini dei conventi. Pina, con la veste a quadrettini bianchi e neri e il collare inamidato, in fondo a un viale di cipressi, con gli occhi bassi leggeva un romanzo proibito. Quei suoi occhi trasparenti non potevano fare a meno di sognare. La vita non finiva col solco quadrato del convento. Anzi, cominciava proprio dove finiva il cancelletto di ferro arrugginito, coperto di mimose e di acacie.
Pina s’attardava, sola, lungo le siepi per vivere un po’ a suo modo. Sognava il suo principe azzurro. L’attendeva ogni notte nella corsia bianca del convento assieme al primo chiaro di luna. Credeva proprio che il suo principe dovesse essere attaccato a quel filo d’argento. Ma ogni notte era una delusione. L’orologio a pendolo contava le ore, e le suore, brutte e bisbetiche, vigilavano sulla testa di seta bionda della contessina. Già, non vi ho detto che Pina Menichelli era sempre provvista, come tutte le attrici di allora, di titoli nobiliari.
Generalmente era sempre contessina. A forza di attendere, una bella mattina davanti al convento si ferma una lussuosa automobile. La contessina viene chiamata d’urgenza. La madre superiora annunzia alla sua prediletta che il signor conte, il padre della bambina, è venuto a ritirarla. Pina piange di felicità. Saluta le compagne, e parte verso la vita insieme al signor conte. Sino a questo momento Pina somiglia a tutte le belle ragazze di buona famiglia. Ma una volta oltrepassata la soglia del convento, acquista subito una sua particolare fisonomia. Vestita da amazzone da la caccia alla volpe. Gioca alla roulette, danza il fox-trott.
Nel primo atto Pina sembrava una brava figliola. Al secondo, diventa più bella che buona. Al terzo è capace di farci perdere la testa. Al quarto, ci sbalordisce. In tutti i suoi film c’è questo crescendo. Le sue labbra, carnose, rosse e rotonde, baciano continuamente il pubblico. Il suo corpo acquista plasticità feline. Però, al quarto atto, quando siamo convinti che il suo cuore è di perfetto marmo di Carrara, eccoti che si scioglie come una giuggiola davanti all’uomo che ha rovinato.
Tutti i baci di Pina Menichelli sono sospesi in aria. Frullano a capriccio fra gli anelli d’oro dei suoi capelli, si poggiano senza peso sulle ciglia lunghe, sostano nell’incavo degli occhi per rendere più appassionato lo sguardo. Allora, soltanto allora, gli sguardi azzurri e verdi di Pina incatenano. Sembrano tante goccie d’acqua marina staccate da conchiglie di madreperla.
Molte volte succede che Pina, un po’ per orgoglio e un po’ per innata perfidia, rinunzi al marchese per sposare un pittore povero o un poeta senza editore. Il suo cuore ha di queste romanticherie. E, una volta che Pina Menichelli arrotonda la bocca per scoccare un autentico bacio, il fortunato mortale che l’ha ricevuto può accendere due lampade votive a Cupido. Il Fuoco, interpretato da Pina Menichelli e da Febo Mari, in un modo veramente magistrale, è l’unico film in cui l’attrice capovolge la situazione, e, invece di scoccare il fatidico bacio, nell’ultima scena del quarto atto l’anticipa di tre atti. Il risultato è veramente sorprendente. L’attrice si trasforma in amante. Si veste di rose bianche, abbandona principi e cavalli, per darsi completamente al pittore povero. La favola è breve. Fiori, baci, carezze. Poi, la fine, come tutte le fini di questa terra, è malinconica. Pina Menichelli parte per ignota destinazione e il pittore, svegliandosi dal dolce sogno, diventa pazzo.
Ma, lasciamo andare trame, atti e commedie e rivediamo sola e lontana Pina Menichelli esiliata dai suoi castelli di cartapesta e dai suoi stemmi dipinti a mano sullo schienale delle poltrone. Sullo schermo bianco i suoi chiari occhi luccicano ancora di rugiada e le sue mani, piccole e carnose, invocano gli amori passati. Tutti gli amori perduti lungo i viali dei conventi; quelli che erano attaccati ad un filo di luna. Nessuno ascolta più la sua voce silenziosa; la sua voce di seta tiepida. Neanche il pubblico che rubò l’acquazzurra dei suoi sguardi. Ma io la vedo ancora in quel suo vestitino col collare inamidato, passeggiare lungo una corsia, col cuore tremante per l’inganno di un sogno. Vedo anche il suo romanzo proibito. Un romanzo innocente dove l’eroina va in moglie ad un generale napoleonico che vince ogni giorno una battaglia. Pina Menichelli cammina. Man mano che va avanti, le mimose del cancelletto di ferro arrugginito diventano secche e il ciclo si fa nero. Questa volta, il signor conte non l’attende con l’automobile davanti alla soglia del convento per mostrarle la favola breve della vita.
Il Padrone delle Ferriere, povero Amleto Novelli, è morto, e tutti gli altri chissà mai dove sono andati a finire.
Marchesi senza corona e pittori poveri, banchieri e poeti, forse, lontani dalla loro creatura, continuano a commemorare in silenzio quella sua bocca, rossa e carnosa, sempre semiaperta: come chi attende un dono ignoto, invano!…
Rafca (Cinema Illustrazione, 11 febbraio 1931)