Un altro bilancio passivo!

Torino, dicembre 1923

L’anno cinematografico non si può ridurre semplicemente ad un bilancio contabile, nè bastano cifre o fatti a darne con sicura scienza la situazione complessiva da cui dedurre la sincera situazione. Il bilancio matematico — e materiale — va illustrato da copia di considerazioni, apparentemente estranee in parte, ma tali da influire in modo efficace sull’arida valutazione dei fatti specifici.

Tuttavia la comparazione del dare e dell’avere è sommamente istruttiva, specie per quanto riguarda il passato, e permette di ritrarne considerazioni — amare purtroppo! — sull’andamento generale della nostra industria, sempre tanto decantata e blandita a parole, e tanto bistrattata, accanitamente colpita nei fatti.

Sembra che una fatalità incomba sulle cose del cinematografo italiano: fatalità che persegue ostinata, dopo il bluf fantasmagorico, mirabolante dei primi tempi di pace. Fatalità che — ironia somma — si diverte a lasciar intravvedere un lembo di cielo azzurro, rinfocolando speranze e chimere, per poi ripiombare tutto nel più buio limbo di un’apatica abulia distruggitrice.

Anche quest’anno, come l’anno passato, come il precedente, il bilancio è in completo stato di fallimento: al passivo… tutto; all’attivo… nulla, 0 quasi. Condizione spaventosa, impressionante, tale da togliere coraggio a proseguire, da condurre alla disperazione più nera. Teatri chiusi, le Case sparite o ridotte a larve nominali, a simulacri reggentisi per lustra e per dar modo a qualcuno di aggrapparvisi peggio dell’ostrica allo scoglio, coll’unico scopo di conservare la fonte perenne di scialacquio, pozzo di S. Patrizio inesausto per le fauci insaziate, a tutte spese dei gonzi e di Pantalone.

Del resto uno sfacelo generale, giunto a tal grado di ruina a traverso la serie di colpe ed errori che non vogliamo oggi rinvangare per la centesima volta!

Tutto questo mentre le sale di proiezione rigurgitano di spettatori, mentre in ogni buco sperduto delle campagne e sulle punte apriche dei monti si moltiplicano i cinematografi: quando giornali quotidiani di indiscusso valore impostano una loro campagna di propaganda pel teatro drammatico, basandosi sulla pletora di pubblico che il cinema attira a detrimento del palcoscenico, e dando così prova lampante del crescente entusiasmo popolare per lo schermo.

E non si venga a sostenere che il popolo, la massa, ha preferenza per le pellicole americane e sdegna le nazionali. Non è vero.

Anzitutto il pubblico se ne infischia e non ha preconcetti: la parola è forse cruda, ma risponde perfettamente a verità. Esso prende ciò che gli danno, senza incaricarsi della provenienza, approvando ciò che gli piace, discutendo quanto non è di suo gusto.

Tutt’al più, anzi, si potrebbe dire che accetta la produzione straniera (straniera in genere, di qualunque luogo) perchè non gli servono di quella italiana, ma, di due lavori d’ugual pregio, preferisce il nostro per quell’innegabile spirito di nazionalismo che da un poco in qua va facendosi strada nella mente del nostro popolo, e perché le sue tendenze lo portano ad amar meglio il genere nostro che non quello altrui. Ne è prova il fatto che una pellicola nostra tiene il cartellone tanto e forse più di una straniera, purché sia buona e sia presentata colla stessa dovizia di pubblicità, colla stessa cornice preparatoria.

Nè è meno assurda l’affermazione accampata con superba sicumera d’una antipatia dell’estero pei nostri lavori. Non ci ripeteremo neppur qui, citando tutte le richieste di produzione italiana che ci sono ripetutamente pervenute — e che noi abbiamo sempre reso di pubblica ragione — da ogni luogo del mondo, compresa la Francia, nostra dolce sorella sprezzante, e compresa l’Australia, chiusa a tutte le importazioni cinematografiche, compresa quella inglese.

Noi non abbiamo — e probabilmente non avremo mai, per ragioni facili a comprendere — i mezzi strepitosi degli anglo-sassoni di qua e di là dell’Atlantico: non possiamo buttare milioni di lire a palate per la costruzione di un film; non possediamo quel senso del kolossal che distingue i produttori germanici e li fa inscenare strepitosi soggetti di mole formidabile. Ma abbiamo, insito in noi, un senso estetico ed artistico al quale gli altri aspirano senza raggiungerlo mai; abbiamo l’arte innata ereditata dai lunghi secoli gloriosi della nostra civiltà mondiale; abbiamo cielo e sfondi e paesaggi che le più belle contrade forestiere si lasciano addietro per lunga pezza.

E i popoli stranieri amano i nostri lavori, e gli impresari li ricercano insistentemente.

… Eppure non si vende…

Infatti: si vende poco. Solo quello che vale in sé: e solo quello che il produttore sa vendere. Finchè si aspetterà che il compratore accorra a richiedere come una grazia speciale di farsi strozzare allegramente dal fabbricante italiano; finché si rimarrà inerti lasciando allo… stellone di buona memoria il compito di espandere le nostre pellicole; finché si tratteranno i compratori d’oltre Alpe e d’oltre Oceano quali esseri inferiori, indegni che i Padreterni della nostra cinematografia si abbassino a ricercarli, i nostri films rimarranno circoscritti alle poche sale italiane e non varcheranno né monti né mare.

Occorre andar sul posto, portare a ciascuno, selezionato, quanto è più di suo gusto, far visionare, allettare il cliente, rendergli facile conoscenza e acquisto dei lavori. L’unico trust che avrebbe ragione di esistere sarebbe appunto un’unione fra i vari produttori, per l’impianto di una moderna organizzazione di vendita, che avesse branchie e tentacoli in ogni dove, e che avesse il coraggio e la forza (i capitali non mancano!) di aprire all’estero cinematografi esclusivamente italiani, per invogliare il pubblico e costringere noleggiatori e acquisitori a fornirsi in Italia.

Un cinema a New-York, uno a Londra, a Barcellona, a Berlino, a Buenos Aires, a Parigi, a Vienna: in qualunque città di grande commercio, non potrebbe che essere redditizio e foriero di vantaggi alla nostra produzione nazionale, assai più certamente che non i pochi locali più o meno grandiosi che oggi
si… trusteggiano senza risultati per l’industria.

È vero che per far ciò occorre sapersi staccare dalla gretteria delle concezioni commerciali e industriali fin qui seguite, e occorre impiantare tutt’una organizzazione costosa, mirando ad un guadagno futuro e complessivo, non al piccolo ma immediato e irrisorio rimpinzamento di portafogli, con interesse particolaristico ed egoistico.

I cinematografisti che, sapendo guardare più in là del proprio naso, hanno capito la vera situazione del mercato internazionale e sanno adattarsi ad essa ed agire di conseguenza, vendono e vendono bene. Ma son pochi e le dita di una mano son troppe per numerarli! E i lavori che questi producono, buoni innegabilmente e lontani ben dalle meschine porcheriole cui i Padreterni ci avevano — ahimè — assuefatti, non hanno poi nulla di straordinario o così superlativamente sublime da imporsi come curiosità uniche al mondo.

Qualunque Casa, in Italia, potrebbe lavorare così, e qualunque potrebbe come questi vendere, sol che volesse. Non ci sono inscenatori, da noi? Crediamo che i nostri nulla abbiano da invidiare agli stranieri, per coltura, senso artistico e pratica tecnica: mancano piuttosto di mezzi. Dai teatri che — costosissimi e grandi di spazio — non sono attrezzati, alla luce deficiente; dalle macchine al materiale impressionabile e ai bagni di sviluppo; insomma essi sono vittime delle incomprensibili gretterie dei proprietari, i quali lesinano i mezzi necessari per buttare invece centinaia di biglietti da mille in spese inutili, senza scopo. E son vittime del divismo, sostenuto dai proprietari stessi che a parole lo deprecano, e son vittime di tutto un sistema sbagliato e deleterio.

Ad ogni modo, qualora in qualcosa i nostri direttori artistici difettassero, facile sarebbe richiamarne qualcuno dal di fuori, che, coll’esempio pratico, correggesse i difetti. Se n’è parlato, ripetutamente. Ma la cosa è rimasta allo stato di progetto. Come allo stato di progetto è tutta la strombazzata reiterata promessa di una ripresa imminente, d’una imminenza che si trascina di mese in mese da un anno!!!

Quando non si sa più che cosa eccepire, si annunzia che le Banche non danno più i capitali per la lavorazione. È naturale! Dopo le . . . scottature avute! E dopo che, anche dopo scottate, hanno continuato a dare e dare a fondo perduto.

Non sono le Banche, del resto, che devono fornire i capitali. Sono i privati cittadini, come avviene per qualunque altra industria di qualunque genere. Ma è logico che questi privati non arrischino un soldo per affidarlo a chi già sanno li farà sparire nel mare magnum della voragine abituale, dove già sparirono centinaia di milioni.

Cambiare uomini, occorre, e allontanare quelli che soffrono d’una tabe organica ormai troppo nota: e cambiare sistemi.

Solo così potremo ritornare a far fiorire questa industria che è stata e fatalmente dovrà essere ancora vanto italiano; giacché, ad onta di tutto, noi siamo certi, persuasi, che il primato cinematografico dovrà tornare a noi ineluttabilmente, quando avremo mutato metodi e persone.

Ed è questa la conclusione finale di tutte le amare constatazioni, e le presunzioni che dal bilancio di quest’anno noi vegliamo ritrarre per l’avvenire.

Per oggi… zero, passivo completo. Quel pochissimo di attivo… lo serberemo qual fondo per l’anno venturo, sperando che finalmente il 1924 voglia aprire gli occhi agli addormentati, e… chiuderli definitivamente ai troppo svegli!

Con tale speranza porgiamo ai cinematografisti tutti, ai collaboratori, ai lettori, gli auguri più cordiali per l’anno nuovo.