Il riduttore miracoloso

Ovvero: come l’arte della “riduzione” consiste in transformare un mediometraggio in lungometraggio.

Ottobre 1927. La Gazzetta del Popolo di Torino pubblicava, sotto il titolo Cinematografo, Charlot… e i suoi traduttori, la seguente lettera indirizzata a Eugenio Bertuetti critico drammatico e cinematografico del quotidiano piemontese:

«E’ noto che Ella si interessa, oltrechè di Teatro, di quel più vasto fenomeno di spettacolo rappresentativo che è il Cinematografo, verso il quale convergono, ormai, a centinaia di migliaia i cittadini di tutte le classi e anche coloro che, fino a pochi anni or sono, al Cinematografo erano ostili.

Desideriamo richiamare la Sua attenzione precisamente su i films di Chaplin, questo artista universalmente ammirato e che ha portato il Cinematografo a un’altezza e a una serietà mai prima raggiunte.

Vorremmo sapere se le didascalie che si leggono nelle nostre riproduzioni dei films di Charlot sono originali o sono dettate dalla Casa Pittaluga, che in Italia ha l’esclusività della produzione dell’attore americano. Queste didascalie per la loro grossolana banalità, per l’anti-stile chapliniano in cui sono espresse urtano il sentimento artistico degli spettatori e lasciano supporre che siano una invenzione del traduttore, il quale non ha capito e non è in grado di capire lo spirito dell’artista americano.

A parte il fatto che Charlot ci fa una figura da imbecille, pare a noi che quelle espressioni malaugurate siano un’offesa allo spettatore, che sottolinea l’evidente contrasto che c’è fra l’azione e la descrizione. Se una manomissione vi è, noi chiediamo, a Suo mezzo, sia riparata e che l’opera d’arte sia rispettata.

A Lei l’esprimere in proposito un parere che sarà certamente ascoltato dagli interessati.

Ossequi.

Attilio Teglio – Furio Fasolo – Michele Intaglietta.»

Sotto la lettera, il commento altrettanto indignato del Bertuetti:

«I tre colleghi hanno un sacco di ragioni per uno. Sere fa al Ghersi, dove si proietta il nuovo film comico di Charlot, Vissi d’arte, vissi d’amore, rimasi non poco sorpreso dalla grossa stupidaggine con cui il riduttore italiano volse in didascalie i casi burleschi e la mimica stupenda d’un attore, grande davvero, come Charlie Chaplin.

A parte il valore, certamente al disotto di molti altri, di quest’ultimo film (ultimo apparso a Torino, si capisce), non possiamo credere siano dovute alla viva fantasia dell’autore – nè possiamo quindi ammettere la fedeltà del traduttore – le sciocchezze operettistiche e librettistiche del commento.

Illustrare l’arte varia, profonda, umanissima di Charlot con titoli e didascalie appropriate, armonizzanti col gioco bizzarro del gesto e dell’espressione indimenticabili, dev’essere senza dubbio difficile. Ma questa è ragione appunto che dovrebbe far pensare i responsabili prima d’ammannire al pubblico tiritere puerili e sconclusionate quali il… prefato disgraziatissimo Vissi d’arte, vissi d’amore.

A tutti è permesso di non capire l’ubi consistam dell’arte nuova e sorprendente di chi seppe donarci La febbre dell’oro, persino agl’impresari! ma è assurdo immaginare che non riescano a capirla almeno gl’incaricati d’illustrarla.

Il cinematografo, massime in certi spettacoli, e con certi attori, ha ormai raggiunto l’espressione d’una vera e propria forma d’arte: arte modernissima, ricca di fantasia, rispondente al vertiginoso avvicendarsi dei gusti ed a quella sete del miracoloso che contrassegna la più acuta aspirazione dello spirito odierno. Ha per un verso preso il posto del libro e per l’altro s’incammina a sostituire il teatro, dove questo non trovi atmosfere rinnovate. E’ dunque ora che, anche per quanto concerne la “letteratura cinematografica” — titoli, didascalie, descrizioni, battute di dialogo, illustrazioni, ecc. ecc. — si pensi a fare un pochino più seriamente di quanto non s’è fatto sin qui. L’opera di un grande inscenatore, o quella di attori come Mary Pickford e Charlie Chaplin, non può essere affidata, per le riduzioni italiane, al mestierante dozzinale. Per l’opera d’arte ci vuole l’artista, prova ne sia che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di far postillare Molière al copista di palcoscenico.

Ricordino gl’interessati che, di questo passo, potrebbe toccare al malcapitato illustratore qualcosa di simile a quanto capitò al famoso calzolaio fiorentino, il quale, avendo imparato a memoria le parole della Divina Commedia, si era illuso d’averla compresa e di poterla recitare. Sappiamo bene come trattasse Dante questo sconciatore dell’opera sua…

Gli è che Charlot sta in America, mentre Dante era fiorentino come quel calzolaio e potè averlo sotto mano. La distanza — ahimè! — crea troppe immunità ingiuste.»

Sicuramente l’articolo fece rumore nel piccolo-grande mondo degli addetti ai lavori. Meno di una settimana dopo, il settimanale Kines – Cinemastar pubblicava l’intero articolo della Gazzetta del Popolo, aggiungendo alla fine:

«La lettera ed il commento hanno fatto molto ridere e sorridere i cinematografisti torinesi, nessuno dei quali ignora che cosa sia il film Vissi d’arte… vissi d’amore di Charlot, e quale sia stata l’opera veramente geniale del riduttore del film che è riuscito a creare un programma con qualche centinaio di metri di pellicola. Il granchio del Bertuetti e dei tre giovanissimi cineasti è perdonabile, ma non per questo meno spassoso.»

E per finire di chiarire qualsiasi dubbio in proposito, il Kines – Cinemastar offre ai suoi lettori un’intervista con il riduttore ignoto, che loro chiamano “il riduttore principe”, firmata da un certo Guèpe. I punti più interessanti sono questi:

«Vi dirò che non ho rovinato il film di Charlot Vissi d’arte nonchè d’amore per un potentissima ragione: quel film di Charlot non esiste. E’ una fanfaluca, un’illusione, una chimera. (…) Il competente, si sarebbe accorto eziandio che il film non è un film ma consta di due scene in vari quadri che nulla hanno di comune fra loro, e che appariscono fuse solamente perchè io vi ho messo le mani. (…) Bertuetti avrebbe voluto dire, se avesse capito di cinematografia: “Il film è vecchio, e si compone di scene staccate. L’opera del riduttore italiano è perfetta, poichè le tiene insieme. E’ un vestito d’Arlecchino, nè poteva essere diversamente: ma è un vestito. Sarebbe però desiderabile che il riduttore non sciupasse il suo innegabile talento in rifacimenti che danno scarsa pecunia e nessuna soddisfazione artistica, e scrivesse, invece, dei buoni soggetti anzichè sfibrarsi a raddrizzare le gambe ai cani.”»

Ignoro se l’eco di questa polemica arrivò in America, e se Chaplin vide mai, aiutato da qualche traduttore italiano-inglese, naturalmente, quello che il riduttore italiano aveva combinato con le didascalie. Sono curiosa, sarà sopravvissuta qualche copia di questo contestato “capolavoro” del 1927?

Nota: secondo alcune filmografie Vissi d’arte… vissi d’amore dovrebbe essere Sunnyside (1919) io vorrei vedere la “compilation” italiana made in Società Anonima Pittaluga del 1927… tanto per essere sicuri…

2 pensieri su “Il riduttore miracoloso

  1. Davvero molto interessante!
    Non so perché mi ha ricordato i film fatti con l’assemblaggio sequenziale di alcune serie Tv per creare dei presunti nuovi film. In particolare mi viene in mente la serie Ufo SHADO del grande Gerry Anderson, che subì questo trattamento per ben 5 film tutti prodotti in Italia e poi, visto l’inatteso successo, distribuiti anche all’estero.
    Alla fin fine il processo era lo stesso, trovare un abile “riduttore” per creare un lungometraggio dal niente (o quasi), con un risultato spesso non troppo soddisfacente.

  2. thea

    I film di Chaplin, Buster Keaton, Laurel & Hardy, per citare soltanto qualche nome, hanno subito di tutto e di più… Business is business! Anni fa, alcune di queste “riduzioni” si potevano ancora vedere in televisione, ma non ricordo questo “Vissi d’arte…”.

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